Assoluzioni tutte annullate e un nuovo processo d’appello da celebrare a Firenze: è la decisione della Cassazione sulla vicenda giudiziaria di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, espulsa verso il Kazakhstan nel 2013 insieme alla figlia Alua e poi entrambe tornate in Italia. Una sentenza che annulla quella della Corte d’appello di Perugia, che assolse gli imputati con la formula “perché il fatto non sussiste”, la quale a sua volta aveva ribaltato il giudizio di primo grado e dispone un nuovo esame del procedimento che coinvolge tra gli altri i poliziotti Renato Cortese e Maurizio Improta, che nel maggio del 2013 guidavano la squadra mobile e l’ufficio immigrazione della questura di Roma, nonché alcuni loro collaboratori dell’epoca. Accolto quindi il ricorso della procura generale del capoluogo umbro guidata da Sergio Sottani.
Oltre a Improta e Cortese, nel processo sono coinvolti l’allora giudice di pace Stefania Lavore (il coinvolgimento della quale ha portato il fascicolo a Perugia per competenza), gli ex funzionari della mobile romana Luca Armeni e Francesco Stampacchia e quelli dell’ufficio immigrazione Vincenzo Tramma e Stefano Leoni. Era il 28 maggio del 2013 quando Alma Shalabayeva venne fermata dalla polizia mentre si trovava in una villa a Casalpalocco, a Roma, dove gli agenti stavano cercando il marito, il dissidente kazako Mukhtar Ablyazov. Alla donna venne contestato il possesso di un passaporto falso e, pochi giorni dopo, fu espulsa insieme alla figlia di sei anni. Entrambe vennero imbarcate e fatte partire su un aereo diretto in Kazakistan. Espulsione revocata il 5 luglio, dopo che Ablyazov si era appellato all’allora premier Letta.
Pochi giorni dopo la procura di Roma aprì un’inchiesta su presunte irregolarità nell’espulsione di Shalabayeva, fascicolo poi assegnato per competenza ai pm di Perugia. Nel dicembre del 2013 l’allora ministro degli esteri, Emma Bonino, riuscì ad ottenere il rientro in Italia delle due espulse alle quali venne riconosciuto lo status di rifugiate. Per i giudici di primo grado il trattenimento di Alma Shalabayeva e della figlia Alua, fu un evento che “sarebbe preferibile definire un ‘crimine di lesa umanità” e rappresentò “una ipotesi di patente violazione dei diritti fondamentali della persona umana”.
Di diverso avviso i giudici d’appello che nella motivazione della sentenza di assoluzione hanno sostenuto come fosse “radicalmente insostenibile” che la polizia italiana avesse concorso alla “deportazione” di Alma Shalabayeva e della figlia Alua. Decisione impugnata dalla procura generale che ha contestato la decisione assolutoria ritenendo che la sentenza “appare viziata” per avere dichiarato innocenti gli imputati, “senza procedere al riascolto di testimoni di accusa, ritenuti tutti inattendibili”. Ora il nuovo processo è da celebrare a Firenze, in quanto Perugia ha una sola sezione di Corte d’appello.