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Schengen è in crisi, l’Europa accelera sui rimpatri

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Il cielo è nero su Lussemburgo ed è perlomeno plumbeo sul futuro dell’area Schengen. Alla riunione dei ministri dell’Interno del vecchio continente va in scena un’Europa spaventata dal ritorno del terrorismo e da cosa potrà portare il peggioramento della guerra in Medio Oriente. “L’accordo di Schengen non è morto ma è rotto”, sentenziano Germania e Austria mentre la commissaria Ue agli Affari Interni Ylva Johansson non può che certificare che il ritorno dei controlli alle frontiere “danneggia la libertà di circolazione”. Ed è per evitare tutto ciò che Bruxelles vuole accelerare su quella che ormai “è una priorità, i rimpatri volontari assistiti degli irregolari che sono una minaccia alla sicurezza”.

Il primo Consiglio Affari Interni dallo scoppio della guerra tra Israele e Hamas vede la sua agenda stravolta. Prima della riunione a 27, nove Paesi membri, su invito della Svezia, si incontrano a colazione per fare il punto sulle misure anti-terrorismo. Sono, in grandissima parte, i cosiddetti Paesi dublinanti (tra gli altri partecipano Francia, Belgio, Olanda), ovvero quelli che da tempo chiedono che gli Stati di primo approdo non facciano passare i migranti senza averli registrati. C’è un dato, infatti, che preoccupa le capitali del Nord: Abdesalem Lassoued, il, killer di Bruxelles, “era illegalmente in Ue da 12 anni”, ricorda Johansson. “La questione riguarda il sistema di Dublino, gli scambi di informazioni, i controlli alle frontiere”, osserva il ministro svedese Gunnar Strommer. L’ombra di un nuovo scontro tra Nord e Sud d’Europa torna a comparire all’orizzonte con l’aggravarsi del susseguirsi delle notifiche sulle sospensioni di Schengen che diversi Paesi membri stanno inviando o invieranno a Bruxelles. “Ci può essere un effetto domino”, spiega il ministro croato Davor Božinović.

Il governo Meloni, quella notifica – in merito al confine con la Slovenia – l’ha già inviata. Ma “all’Ue ho precisato che si tratta di una misura che si ripromette di essere temporanea, proporzionata”, sottolinea il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Il 2 novembre, a Trieste, il titolare del Viminale vedrà i suoi omologhi di Croazia e Slovenia proprio per aumentare il livello di coordinamento. “Roma garantisca il normale flusso di transfrontalieri”, è la raccomandazione del rappresentante di Ljubljana, Boštjan Poklukar, che ai cronisti ricorda con amarezza “l’insopportabile” periodo pandemico. Di fronte a questo quadro l’Ue, per ora, punta ad una soluzione: rimpatriare il prima possibile i sospetti jihadisti. Venerdì, su convocazione del coordinatore per i rimpatri, avrà luogo una riunione ad hoc con il gruppo di alto livello che rappresenta tutti i 27. Bruxelles vuole azzerare la discrezionalità dei Paesi membri e accelerare con gli accordi con i Paesi terzi. Il modello resta quello tunisino perché – sottolinea Johansson – finora la collaborazione è stata buona ed le partenze illegali, in un mese, sono scese “dell’80%”.

Nel frattempo aumenta il pressing del Consiglio Ue sull’Eurocamera affinché assuma la posizione negoziale sulle norme sui rimpatri, ferme in commissione per le riserve finora espresse dai Popolari. L’obiettivo di Commissione e Consiglio è chiudere i negoziati su rimpatri e Patto sulla migrazione entro il semestre spagnolo. “Dopo i temi tecnici per l’attuazione” prima dell’Europee rischiano di non esserci, è l’avvertimento di Madrid. Al pranzo di lavoro, a porte chiuse, i ministri si soffermano sui diversi aspetti della guerra in Medio Oriente, incluso quello degli ostaggi (diversi sono originari del vecchio continente) e dagli europei ancora bloccati a Gaza. L’obiettivo, su questo secondo punto, è aumentare il pressing sull’Egitto per far sì che lascino la Striscia. Ma l’Ue naviga a vista, ripetendo, ad ogni interlocutore, la necessità di una de-escalation.

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Israele uccide Yahya Sinwar, la fine di un leader spietato di Hamas

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La polizia israeliana ha confermato ufficialmente che il corpo di Yahya Sinwar, leader di Hamas e architetto dell’attacco del 7 ottobre 2023, è stato identificato tramite un esame dell’arcata dentale, anche se sono in corso ulteriori test per confermare l’identità. Sinwar, definito da molti come una figura enigmatica e crudele, è stato responsabile della pianificazione di operazioni violente e brutali contro Israele, tra cui il massacro di oltre 1.400 israeliani durante quell’attacco.

Chi era Yahya Sinwar?

Nato a Khan Younis, una delle aree più povere di Gaza, Sinwar si era costruito una reputazione spietata già negli anni ’80, quando venne arrestato e condannato a più ergastoli per l’omicidio di tre soldati israeliani e 12 palestinesi sospettati di collaborare con Israele. Durante il suo periodo in carcere, studiò approfonditamente il nemico, imparando l’ebraico e leggendo libri sui padri fondatori di Israele, come Jabotinsky e Begin.

Rilasciato nel 2006 in seguito allo scambio di prigionieri per il soldato israeliano Gilad Shalit, Sinwar si rivelò un leader carismatico e strategico, orchestrando operazioni che resero Hamas sempre più forte, tanto da essere eletto leader dell’organizzazione per tutta Gaza nel 2017.

Un leader temuto, anche dai suoi

Il soprannome “il macellaio di Khan Yunis”, con cui era conosciuto tra i ranghi di Hamas, dimostra quanto fosse temuto, persino all’interno dell’organizzazione. Famoso per i suoi metodi violenti contro gli oppositori e le spie, Sinwar ha consolidato il suo potere grazie alla brutalità. I suoi successi, tuttavia, lo hanno reso il bersaglio principale dell’intelligence israeliana, che lo ha considerato una delle minacce più pericolose per lo Stato ebraico.

Il ruolo di Sinwar nel contesto geopolitico

L’attacco del 7 ottobre, orchestrato da Sinwar, ha sollevato speculazioni sul coinvolgimento di attori esterni, come l’Iran e, secondo alcuni esperti, persino l’influenza di Vladimir Putin, interessato a spostare l’attenzione mondiale dalla guerra in Ucraina al Medio Oriente. Il capo di stato maggiore israeliano, Herzi Halevi, aveva avvertito che “Sinwar e i suoi uomini sono già morti”, una profezia che si è infine avverata con la sua uccisione a Rafah, dopo oltre un anno di nascondigli tra i tunnel di Gaza.

La fine di Sinwar

Definito da Benyamin Netanyahu come un “piccolo Hitler”, Yahya Sinwar era diventato un nemico giurato di Israele. Ora, con la sua eliminazione, Israele può considerare una delle sue più grandi minacce neutralizzata, anche se resta incerto quale sarà l’impatto della sua morte sull’equilibrio del potere nella regione.

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16 Paesi Ue di Unifil, ‘rivedere regole d’ingaggio’

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Il tempo stringe. Bisogna agire prima che un ulteriore attacco abbia conseguenze più gravi. La burocrazia Onu è lenta ed il ministro della Difesa, Guido Crosetto, insieme al collega francese Sébastien Lecornu, ha convocato in mattinata una riunione in videoconferenza dei ministri dei 16 Paesi europei che partecipano ad Unifil: occorre rivedere le regole d’ingaggio della missione, è la posizione emersa, insieme alla necessità di “esercitare la massima pressione politica e diplomatica su Israele, affinché non si verifichino ulteriori incidenti”. Un avvertimento è rivolto anche ad Hezbollah, che “non può utilizzare il personale di Unifil come scudo nel contesto del conflitto”.

Crosetto ha quindi sintetizzato: la missione si può anche potenziare, aumentando il numero dei militari e definendo regole più efficaci, ma Israele deve ritirarsi facendo fare ai caschi blu con le buone ciò che lei vuole ottenere con le cattive, cioè lo smantellamento delle postazioni di Hezbollah lungo la linea di confine. Da Tel Aviv continuano però a non arrivare aperture. “Israele – ha detto il ministro degli Esteri Israel Katz – attribuisce grande importanza alle attività di Unifil e non ha alcuna intenzione di danneggiare l’organizzazione o il suo personale. Inoltre, Israele ritiene che l’Unifil svolga un ruolo importante nel ‘giorno dopo’ la guerra contro Hezbollah”.

Nel frattempo si va avanti, dice Katz, ricordando che “è Hezbollah a usare il personale Unifil come scudi umani, sparando deliberatamente ai soldati dell’Idf da luoghi vicini alle postazioni Unifil, per creare attriti”. Non pare esserci molto spazio per trattative diplomatiche, dunque. La tela di contatti di Crosetto, tuttavia, proseguirà nel weekend a Napoli, dove si riunirà il G7 della Difesa. Un’ulteriore occasione per spingere ad intervenire con urgenza sull’esigenza di garantire la sicurezza ai caschi blu sotto tiro in Libano. Si sa che i numeri contano nel Palazzo di vetro, la capacità di aggregare consensi intorno ad una proposta diventa dunque fondamentale. Non c’è tempo. Il sud del Libano è ormai fuori controllo.

“La decapitazione che Hezbollah ha subito fa sì che al suo interno ormai ci siano sacche che si muovono autonomamente per cui è impossibile sapere chi ti trovi davanti”, ha osservato il ministro. Sono mesi che il titolare della Difesa preme per cambiare le regole d’ingaggio che, ha sottolineato, “consentono ai nostri militari di muoversi solo insieme alle forze armate libanesi. Queste ultime sono però state totalmente distrutte dalla crisi economica. Lo stipendio di un soldato è un ventesimo di quello che era qualche anno fa, per cui è saltata la catena militare libanese e questo ha bloccato anche la possibilità per i nostri militari di muoversi e di implementare la risoluzione Onu che stabiliva che non dovesse esserci alcun pericolo da Hezbollah nella linea di confine di dieci km tra il Libano ed Israele”.

I 16 ministri chiedono quindi anche il rafforzamento delle forze armate di Beirut, attraverso un adeguato supporto addestrativo e finanziamenti internazionali, “affinché possano diventare una forza credibile e contribuire alla stabilità della regione con il sostegno di Unifil”. In serata da Bruxelles è arrivata anche una dichiarazione congiunta dei leader dell’Ue e dei Paesi del Golfo che condanna gli attacchi contro l’operazione delle Nazioni Unite.

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Zelensky presenta il suo piano, spiragli alla Nato

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Il presidente Volodymyr Zelensky presenta il piano della vittoria al Parlamento ucraino e, subito dopo, si lancia nell’ennesimo tour per spingere gli alleati a sostenere la sua causa. Prima a Bruxelles, dove parteciperà al Consiglio europeo e visiterà il quartier generale della Nato, e poi a Berlino, dov’è atteso un vertice a quattro con Joe Biden, Olaf Scholz, Emmanuel Macron e Keir Starmer dopo quello annullato a causa dell’uragano Milton. Tra i nodi fondamentali c’è l’ingresso nella Nato e la novità è che, per la prima volta, si aprono spiragli all’interno dell’Alleanza per concedere l’agognato invito formale ben sapendo che l’adesione sarà comunque un processo lungo e tortuoso. Sembrano solo dettagli ma ormai la forma è sostanza, perché su entrambi i lati dell’Atlantico c’è consapevolezza di quanto sia delicata la situazione sul campo di battaglia.

“Forse non siamo ancora al momento della verità ma potremmo esserci vicini”, sottolinea un diplomatico alleato alla vigilia della ministeriale Difesa che per la prima volta vedrà la partecipazione a questo formato dei partner asiatici (Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda). Il Cremlino, non a caso, ha bersagliato l’annuncio di Zelensky con una dichiarazione trita e ritrita: il suo piano – ha dichiarato il portavoce di Vladimir Putin – è “probabilmente lo stesso degli americani, quello di combattere la Russia fino all’ultimo ucraino”. In realtà diverse fonti alleate confermano che, nei corridoi, si discutono apertamente vari scenari, compresi quelli che prevedono la concessioni di territori in cambio della pace. Ipotesi che il presidente ucraino nega pubblicamente con forza. Il modello che si evoca è quello tedesco, che permise alla Germania Ovest di entrare nell’Alleanza benché l’Est fosse sotto controllo sovietico. Scholz lo suggerisce chiaramente.

“Oltre al chiaro sostegno all’Ucraina, è giunto il momento di fare tutto il possibile per esplorare come arrivare a una situazione in cui questa guerra non si protragga all’infinito”, ha detto al Parlamento tedesco dicendosi aperto a colloqui con Putin. L’approccio però fa il paio con le ‘soluzioni creative’ anche sul fronte alleato. “Il primo punto sulla lista del piano Zelensky è l’invito ad entrare nella Nato perché sa che solo l’articolo 5 può proteggerlo dalla Russia sul lungo periodo: ecco, l’atmosfera sul tema sta cambiando”, afferma un’alta fonte diplomatica alleata. “Certo, al momento è difficile che ci sia ma la richiesta, sia da parte degli ucraini che da parte degli alleati favorevoli, s’intensificherà da qui al prossimo vertice della Nato, e non escludo che alla fine l’invito venga esteso”.

L’Ucraina, si rimarca, non è però la Svezia o la Finlandia, il processo di riforme necessario per entrare nell’Alleanza sarà complesso e poi si dovrà avere una situazione al fronte stabilizzata. Dunque tra l’invito e l’ingresso effettivo passerà giocoforza del tempo. Ma la svolta potrebbe servire a Zelensky per restare in partita, considerando le pressioni sul fronte interno e l’inverno difficile che ha di fronte. Il segretario generale Mark Rutte nel mentre ha rivelato che la Nato è “sulla buona strada” per consegnare i 40 miliardi di euro promessi a Kiev per il prossimo anno, come concordato al vertice di Washington. “Posso annunciare – ha detto – che gli alleati hanno impegnato 20,9 miliardi in assistenza militare nella prima metà del 2024”. Il presidente Biden, dal canto suo, ha annunciato un nuovo pacchetto di aiuti militari da 425 milioni di dollari, con ogni probabilità il contributo Usa alla coreografia di annunci prevista nell’ambito della ministeriale alleata, dove si terrà anche un Consiglio Nato-Ucraina, organizzato per l’occasione nel formato cena, più informale. “Sarà l’occasione per ascoltare dal vivo gli aggiornamenti dal campo di battaglia e le esigenze reali dell’Ucraina”, spiega una fonte. “”Non tutti gli alleati fanno quanto dovrebbero fare al momento, quindi avere una certa iniezione di urgenza politica è utile”.

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