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Pugno di ferro sugli anti-monarchici, è bufera

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Aveva minacciato “bassa tolleranza” verso i manifestanti anti-monarchici intenzionati a guastare la festa dell’incoronazione di re Carlo e della regina Camilla. E Scotland Yard è stata di parola. Non esitando a sfoderare il pugno di ferro per stroncare preventivamente ogni tentativo di azione organizzata a costo di ricorrere a pretesti o poco più, di scatenare la collera delle voci critiche e di essere paragonata da alcuni attivisti dei diritti civili alla polizia russa di Vladimir Putin. Le retate si sono in effetti consumate ancor prima che il corteo reale raggiungesse l’abbazia di Westminster, in nome del semplice sospetto che qualche dimostrante potesse avvicinarsi al percorso cerimoniale. E sono sfociate in decine di fermi eseguiti nell’ambito di quella che la stessa Metropolitan Police di Londra – forte dei draconiani nuovi poteri garantiti di recente dal governo Tory di Rishi Sunak attraverso la controversa stretta legislativa sull’ordine pubblico del Public Order Bill – ha definito “un’operazione significativa”.

In manette, temporaneamente, sono finiti per primi una mezza dozzina di militanti della frangia repubblicana britannica del movimento Republic, oltre al loro leader in persona, l’irriducibile Graham Smith, trascinati via da Trafalgar Square. Poi, con metodi altrettanto spicci, è toccato a qualche decina di ecologisti radicali di Just Stop Oil. Gli agenti hanno fatto ricorso ad accuse quanto mai generiche di “disordini” e “disturbo della quiete pubblica”. Prendendo di mira ad esempio le magliette gialle dei repubblicani di Smith con la scritta ‘Not My King’ (etichetta di una campagna di episodiche azioni di disturbo rilanciata a più riprese negli ultimi mesi, dopo la morte di Elisabetta II) come ragione sufficiente a sciogliere un raduno sul nascere. O ancora intervenendo per far piazza pulita d’un presidio di ambientalisti – in barba alla rassicurazione della vigilia sul rispetto della libertà di dissentire a patto di “non interrompere” la celebrazione – solo per aver innalzato striscioni di protesta su un camion parcheggiato. Qualche contestatore o contestatrice è riuscito comunque a intrufolarsi per provare a gridare al passaggio della carrozza di Carlo e Camilla “abbasso la corona” e “aboliamo la monarchia”.

O, come nel caso di Anne Edwards, repubblicana convinta, per tirar fuori un singolo cartello con su scritto “Not my King” proprio dinanzi a Westminster. Tuttavia si è trattato di blitz isolati, il cui impatto è stato sovrastato da ovazioni e gridolini della maggioranza di fan reali presenti: pronti qua e là a rispondere alle “provocazioni” intonando l’inno God Save the King. Ai bastian contrari non è rimasto così che denunciare “la repressione” ai giornalisti. “Questa risposta poliziesca è la dimostrazione che abbiamo ragione a essere qui, poiché la monarchia riflette esattamente tutto ciò che c’è di sbagliato nel Regno Unito: i privilegi, le diseguaglianze, le limitazioni alla democrazia”, ha tuonato fra i più combattivi Martin Weegman, sostenitore dello slogan “Cittadini, non sudditi”.

Mentre a rincarare la dose ha provveduto Yasmine Ahmed, di Human Rights Watch Uk, secondo cui “le segnalazioni di persone arrestate per aver protestato pacificamente contro l’incoronazione sono incredibilmente inquietanti. Cose che ci si aspetterebbe di vedere a Mosca, non a Londra”. Il tutto sullo sfondo di un clima non privo d’incertezze per l’istituzione reale e per un sovrano 74enne salito al trono dopo la fine del capitolo epocale segnato dai sette decenni di regno da record di Elisabetta. Sovrano inevitabilmente di transizione, meno stabile e ‘intoccabile’ rispetto a sua madre. Come testimonia un recente sondaggio YouGov in base al quale la monarchia – sebbene ancora preferita alla repubblica da una maggioranza assoluta di britannici (almeno il 58%) – cala ai minimi storici recenti in termini di consenso complessivo; e sprofonda a un 32% di opinioni positive contro un 38 di giudizi negativi e un 30 di reazioni indifferenti nella fascia d’età dei giovani fra i 18 e i 24 anni: quella dei protagonisti del futuro.

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La trumpiana Greene lavorerà con Musk e Ramaswamy a taglio costi

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La trumpiana di ferro Marjorie Taylor Greene collaborerà con Elon Musk e Vivek Ramaswamy come presidente di una commissione della Camera incaricata di lavorare con il Dipartimento dell’efficienza. “Sono contenta di presiedere questa nuova commissione che lavorerà mano nella mano con il presidente Trump, Musk, Ramaswamy e l’intera squadra del Doge”, acronimo del Department of Government Efficiency, ha detto Greene, spiegando che la commissione si occuperà dei licenziamenti dei “burocrati” del governo e sarà trasparente con le sue audizioni. “Nessun tema sarà fuori dalla discussione”, ha messo in evidenza Greene.

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Pam Bondi, fedelissima di Trump a ministero Giustizia

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Donald Trump nomina la fedelissima Pam Bondi a ministra della Giustizia. L’ex procuratrice della Florida ha collaborato con il presidente eletto durante il suo primo impeachment. “Come prima procuratrice della Florida si è battuta per fermare il traffico di droga e ridurre il numero delle vittime causate dalle overdosi di fentanyl. Ha fatto un lavoro incredibile”, afferma Trump sul suo social Truth annunciando la nomina, avvenuta dopo il ritito di Matt Gaetz travolto da scandali a sfondo sessuale. “Per troppo tempo il Dipartimento di Giustizia è stato usato contro di me e altri repubblicani. Ma non più. Pam lo riporterà al suo principio di combattere il crimine e rendere l’America sicura.

E’ intelligente e tosta, è una combattente per l’America First e farà un lavoro fantastico”, ha aggiunto il presidente-eletto. Bondi è stata procuratrice della Florida fra il 2011 e il 2019, quando era governatore Rick Scott. Al momento presiede il Center for Litigation all’America First Policy Institute, un think tank di destra che sta lavorando con il transition team di Trump sull’agenda amministrativa. Come procuratrice della Florida si è attirata l’attenzione nazionale per i suoi tentativi di capovolgere l’Obamacare, ma anche per la decisione di condurre un programma su Fox mentre era ancora in carica e quella di chiedere al governatore Scott di posticipare un’esecuzione per un conflitto con un evento di raccolta fondi.

La nomina di Bondi arriva a sei ore di distanza dal ritiro di Gaetz dalla corsa a ministro della Giustizia dopo le nuove rivelazioni sullo scandalo sessuale che lo ha travolto. Prima dell’annuncio, l’ex deputato della Florida era stato contattato da Trump che gli aveva riferito che la sua candidatura non aveva i voti necessari per essere confermata in Seanto. Almeno quattro senatori repubblicani, infatti, si era espressi contro e si erano mostrati irremovibili a cambiare posizione. Il nome di Bondi, riporta Cnn, era già nell’iniziale lista dei papabili ministro alla giustizia stilata prima di scegliere Gaetz. Quando l’ex deputato ha annunciato il suo passo indietro, il nome di Bondi è iniziato a circolare con insistenza fino all’annuncio.

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Da Putin a Gheddafi, i leader nel mirino dell’Aja

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Con il mandato d’arresto spiccato contro il premier israeliano Benyamin Netanyahu, insieme all’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, si allunga la lista dei capi di Stato e di governo perseguiti dalla Corte penale internazionale con le accuse di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Da Muammar Gheddafi a Omar al Bashir, e più recentemente Vladimir Putin. Ultimo in ordine di tempo era stato appunto il presidente russo, accusato nel marzo del 2023 di “deportazione illegale” di bambini dalle zone occupate dell’Ucraina alla Russia, insieme a Maria Alekseyevna Lvova-Belova, commissaria per i diritti dei bambini del Cremlino.

Sempre a causa dell’invasione dell’Ucraina nel mirino della Corte sono finiti in otto alti gradi russi, tra cui l’ex ministro della Difesa Sergei Shoigu e l’attuale capo di stato maggiore Valery Gerasimov: considerati entrambi possibili responsabili dei ripetuti attacchi alle infrastrutture energetiche ucraine. Prima di Putin, nel 2011 l’Aja accusò di crimini contro l’umanità Muammar Gheddafi, ma il caso decadde con la morte del rais libico nel novembre dello stesso anno.

Un simile provvedimento fu emesso per il figlio Seif al Islam e per il capo dei servizi segreti Abdellah Senussi. Tra gli altri leader di spicco perseguiti, l’ex presidente sudanese Omar al Bashir: nel 2008 il procuratore capo della Corte Luis Moreno Ocampo lo accusò di essere responsabile di genocidio e crimini contro l’umanità e della guerra in Darfur cominciata nel 2003. Anche Laurent Gbagbo, ex presidente della Costa d’Avorio, è finito all’Aja, ma dopo un processo per crimini contro l’umanità è stato assolto nel 2021 in appello.

Nel 2016 la Corte penale internazionale ha condannato l’ex vicepresidente del Congo, Jean-Pierre Bemba, per assassinio, stupro e saccheggio in quanto comandante delle truppe che commisero atrocità continue e generalizzate nella Repubblica Centrafricana nel 2002 e 2003. Il signore della guerra ugandese Joseph Kony, che dovrebbe rispondere di ben 36 capi d’imputazione tra cui omicidio, stupro, utilizzo di bambini soldato, schiavitù sessuale e matrimoni forzati, è la figura ricercata dalla Cpi da più tempo: il suo mandato d’arresto venne spiccato nel 2005. Tra gli altri dossier aperti e su cui indaga l’Aja c’è l’inchiesta sui crimini contro la minoranza musulmana dei Rohingya in Birmania. Un’altra indagine è quella su presunti crimini contro l’umanità commessi dal governo del presidente venezuelano Nicolas Maduro. E non è solo l’Aja ad aver processato capi di Stato e di governo: nel 2001, l’ex presidente Slobodan Milosevic fu accusato di crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. Arrestato, morì d’infarto in cella all’Aja nel 2006, prima che il processo potesse concludersi.

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