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Burkina Faso come il Mali guarda a Mosca, ‘via i francesi’

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“Via le truppe francesi”: dopo il Mali anche il Burkina Faso volge lo sguardo alla Russia di Vladimir Putin e lancia un ultimatum alla Francia affinché ritiri entro un mese i propri soldati schierati nel Paese. La richiesta è stata confermata dal portavoce del governo, Jean-Emmanuel Ouedraogo all’emittente radiotelevisiva Rtb mentre Parigi temporeggia, invocando un chiarimento dal presidente di transizione, Ibrahim Traoré. Il Burkina Faso ospita attualmente un contingente di quasi 400 forze speciali francesi, il cosiddetto ‘Sabre’. In una lettera del ministero degli Affari Esteri burkinabé indirizzata a Parigi e datata mercoledì scorso, Ouagadougou aveva annunciato di voler porre fine all’accordo militare del 17 dicembre 2018 sullo “status delle forze armate francesi” dispiegate in funzione anti-jihadista nel Paese del Sahel.

“Abbiamo effettivamente ricevuto una nota verbaletrasmessa alla nostra ambasciata”, ha confermato alla France Presse la portavoce del Quai d’Orsay, Anne-Claire Legendre. “Come detto da Macron attendiamo che il presidente di transizione chiarisca questa nota”. “Quello che denunciamo è l’accordo che consente alle forze francesi di essere presenti in Burkina Faso. Non si tratta della fine delle relazioni diplomatiche tra Burkina Faso e Francia”, ha assicurato il portavoce africano, spiegando che “le forze francesi sono di stanza a Ouagadougou su richiesta del Burkina Faso e delle sue autorità” e precisando il termine di “un mese” per lasciare il Paese. Fonti francesi, parlano di disaccordi in seno allo stesso governo burkinabé circa la richiesta di ritiro. “Allo stato attuale, non vediamo come renderla più chiara di così”, ha commentato Ouedraogo, per il quale la richiesta di ritiro delle truppe transalpine “non è legata a un evento particolare”.

La domanda si collega invece alla volontà attuale delle autorità burkinabé “di essere i primi attori nella riconquista del nostro territorio”, ha aggiunto. Gli ultimi scambi ufficiali tra i due Paesi risalgono a una decina di giorni fa, tra lo stesso Traoré e la segretaria di Stato francese, Chrysoula Zacharopoulou che aveva garantito che la Francia non vuole imporre nulla ma, anzi, è “disposta ad inventare un avvenire insieme”. Giunto al potere con il colpo di Stato dello scorso settembre, Traoré ha espresso la volontà di diversificare i partenariati, in particolare, in materia di lotta alla jihad. In queste ultime settimane, il Burkina si è avvicinato, in particolare, alla Russia con il premier burkinabè recatosi a Mosca a dicembre. Due settimane fa ha inoltre dichiarato che un partenariato con la Russia è una “scelta ragionevole”.

Un atteggiamento che ricorda il precedente del Mali. L’estate scorsa, la giunta al potere a Bamako, cacciò le forze francesi presenti da nove anni aprendo le porte, secondo diverse fonti, ai paramilitari russi di Wagner. Versione però seccamente smentita dalla stessa giunta. Anche il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, è intervenuto sulla vicenda sottolineando che “Niger e Mauritania possono essere interlocutori privilegiati perché sono abbastanza stabili. In Burkina Faso dobbiamo aiutare la popolazione civile ed evitare che si trasformi in un altro Mali: serve maggiore presenza dell’Europa e capire quali tra i Paesi possono essere ben graditi. L’Italia certamente raccoglie consensi” e “i nostri militari sono benvoluti”, ha aggiunto.

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La trumpiana Greene lavorerà con Musk e Ramaswamy a taglio costi

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La trumpiana di ferro Marjorie Taylor Greene collaborerà con Elon Musk e Vivek Ramaswamy come presidente di una commissione della Camera incaricata di lavorare con il Dipartimento dell’efficienza. “Sono contenta di presiedere questa nuova commissione che lavorerà mano nella mano con il presidente Trump, Musk, Ramaswamy e l’intera squadra del Doge”, acronimo del Department of Government Efficiency, ha detto Greene, spiegando che la commissione si occuperà dei licenziamenti dei “burocrati” del governo e sarà trasparente con le sue audizioni. “Nessun tema sarà fuori dalla discussione”, ha messo in evidenza Greene.

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Pam Bondi, fedelissima di Trump a ministero Giustizia

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Donald Trump nomina la fedelissima Pam Bondi a ministra della Giustizia. L’ex procuratrice della Florida ha collaborato con il presidente eletto durante il suo primo impeachment. “Come prima procuratrice della Florida si è battuta per fermare il traffico di droga e ridurre il numero delle vittime causate dalle overdosi di fentanyl. Ha fatto un lavoro incredibile”, afferma Trump sul suo social Truth annunciando la nomina, avvenuta dopo il ritito di Matt Gaetz travolto da scandali a sfondo sessuale. “Per troppo tempo il Dipartimento di Giustizia è stato usato contro di me e altri repubblicani. Ma non più. Pam lo riporterà al suo principio di combattere il crimine e rendere l’America sicura.

E’ intelligente e tosta, è una combattente per l’America First e farà un lavoro fantastico”, ha aggiunto il presidente-eletto. Bondi è stata procuratrice della Florida fra il 2011 e il 2019, quando era governatore Rick Scott. Al momento presiede il Center for Litigation all’America First Policy Institute, un think tank di destra che sta lavorando con il transition team di Trump sull’agenda amministrativa. Come procuratrice della Florida si è attirata l’attenzione nazionale per i suoi tentativi di capovolgere l’Obamacare, ma anche per la decisione di condurre un programma su Fox mentre era ancora in carica e quella di chiedere al governatore Scott di posticipare un’esecuzione per un conflitto con un evento di raccolta fondi.

La nomina di Bondi arriva a sei ore di distanza dal ritiro di Gaetz dalla corsa a ministro della Giustizia dopo le nuove rivelazioni sullo scandalo sessuale che lo ha travolto. Prima dell’annuncio, l’ex deputato della Florida era stato contattato da Trump che gli aveva riferito che la sua candidatura non aveva i voti necessari per essere confermata in Seanto. Almeno quattro senatori repubblicani, infatti, si era espressi contro e si erano mostrati irremovibili a cambiare posizione. Il nome di Bondi, riporta Cnn, era già nell’iniziale lista dei papabili ministro alla giustizia stilata prima di scegliere Gaetz. Quando l’ex deputato ha annunciato il suo passo indietro, il nome di Bondi è iniziato a circolare con insistenza fino all’annuncio.

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Da Putin a Gheddafi, i leader nel mirino dell’Aja

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Con il mandato d’arresto spiccato contro il premier israeliano Benyamin Netanyahu, insieme all’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, si allunga la lista dei capi di Stato e di governo perseguiti dalla Corte penale internazionale con le accuse di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Da Muammar Gheddafi a Omar al Bashir, e più recentemente Vladimir Putin. Ultimo in ordine di tempo era stato appunto il presidente russo, accusato nel marzo del 2023 di “deportazione illegale” di bambini dalle zone occupate dell’Ucraina alla Russia, insieme a Maria Alekseyevna Lvova-Belova, commissaria per i diritti dei bambini del Cremlino.

Sempre a causa dell’invasione dell’Ucraina nel mirino della Corte sono finiti in otto alti gradi russi, tra cui l’ex ministro della Difesa Sergei Shoigu e l’attuale capo di stato maggiore Valery Gerasimov: considerati entrambi possibili responsabili dei ripetuti attacchi alle infrastrutture energetiche ucraine. Prima di Putin, nel 2011 l’Aja accusò di crimini contro l’umanità Muammar Gheddafi, ma il caso decadde con la morte del rais libico nel novembre dello stesso anno.

Un simile provvedimento fu emesso per il figlio Seif al Islam e per il capo dei servizi segreti Abdellah Senussi. Tra gli altri leader di spicco perseguiti, l’ex presidente sudanese Omar al Bashir: nel 2008 il procuratore capo della Corte Luis Moreno Ocampo lo accusò di essere responsabile di genocidio e crimini contro l’umanità e della guerra in Darfur cominciata nel 2003. Anche Laurent Gbagbo, ex presidente della Costa d’Avorio, è finito all’Aja, ma dopo un processo per crimini contro l’umanità è stato assolto nel 2021 in appello.

Nel 2016 la Corte penale internazionale ha condannato l’ex vicepresidente del Congo, Jean-Pierre Bemba, per assassinio, stupro e saccheggio in quanto comandante delle truppe che commisero atrocità continue e generalizzate nella Repubblica Centrafricana nel 2002 e 2003. Il signore della guerra ugandese Joseph Kony, che dovrebbe rispondere di ben 36 capi d’imputazione tra cui omicidio, stupro, utilizzo di bambini soldato, schiavitù sessuale e matrimoni forzati, è la figura ricercata dalla Cpi da più tempo: il suo mandato d’arresto venne spiccato nel 2005. Tra gli altri dossier aperti e su cui indaga l’Aja c’è l’inchiesta sui crimini contro la minoranza musulmana dei Rohingya in Birmania. Un’altra indagine è quella su presunti crimini contro l’umanità commessi dal governo del presidente venezuelano Nicolas Maduro. E non è solo l’Aja ad aver processato capi di Stato e di governo: nel 2001, l’ex presidente Slobodan Milosevic fu accusato di crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. Arrestato, morì d’infarto in cella all’Aja nel 2006, prima che il processo potesse concludersi.

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