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Cultura

Piana Campana, una terra antica senza confini che influenza ancora il nostro contemporaneo

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Ancor prima dei regni,  degli imperi  e delle repubbliche romane, in una terra senza confini in un territorio vastissimo che andava dalla città di Napoli sino ai confini settentrionali con il Lazio e come dice il direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Paolo Giulierini “ “Dal Neolitico all’Età del Bronzo, da Cuma a Pozzuoli, da Capua a Napoli: la Campania è davvero una terra senza confini” e questa terra con oltre ottocento reperti , inediti per la maggior parte, racconta questo territorio in una mostra, inaugurata oggi, che non poteva che chiamarsi – La Piana Campana. Una terra senza confini- che non poteva non essere allestita come prosecuzione ideale della mostra -Gli Etruschi e il MANN-  questo per non disperdere il corposo lavoro di indagine e restauro che aveva interessato la retrospettiva sull’antica civiltà italica. E questa la missione del Museo Archeologico come sempre il direttore tiene a puntualizzare dicendoci: “la nostra missione è fare conoscere al mondo la storia millenaria di questa regione che fu chiave del Mediterraneo, anche prima dell’Impero Romano: lo facciamo presentando al pubblico un nuovo ricco allestimento con centinaia di pezzi inediti, mai esposti in maniera organica, e legando così per la prima volta il nome Campania a un grande progetto di valorizzazione della sua archeologia. Per il MANN, che vuole sempre più rafforzare il suo ruolo centrale sul territorio mettendo a disposizione spazi e competenze, è una nuova grande sfida, con un doppio obiettivo. Creare un centro per l’archeologia della Campania settentrionale, in stretta collaborazione con la Direzione regionale Musei Campania, le Soprintendenze e tutti gli enti di tutela territoriali.  E parallelamente lavorare insieme alla Regione Campania e ai maggiori musei europei alla costruzione di una grande mostra internazionale itinerante che possa raccontarci, partendo da un patrimonio identitario straordinario” . Un interessantissimo viaggio tra le pregiate sculture, i gioielli, ai quali di sicuro si sono ispirati i più grandi designer contemporanei, i vasi, i monili, le suppellettili, le spille, le esili sculture in bronzo e le acuminate armi dei guerrieri. Manufatti che appaiono subito incredibilmente moderni, prodotti da artigiani, artisti e maestri del tempo dai quali si possono apprendere le sofisticate ed eleganti tecniche che imperavano nelle loro botteghe.  Un viaggio, questa mostra che ci accompagna in un passato che ha fortemente segnato e indirizzato il suo futuro, fino a far divenire e leggere oggi, quel passato, come estremamente  contemporaneo.

Il percorso espositivo, visitabile dal 16 luglio, si articola in due sale: la prima dedicata al territorio, la seconda incentrata sulle collezioni del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Il segmento territoriale segue un andamento topografico e cronologico, evidenziando gli episodi più significativi al centro del dibattito storico-archeologico in relazione ad alcune specifiche aree: a) Gricignano e Carinaro (età del Bronzo): nelle vetrine sono presentati i reperti provenienti dagli scavi US Navy e Treno Alta Velocità a Gricignano di Aversa e Carinaro, nella provincia di Caserta. Nonostante i disastri naturali, dal Neolitico sino alla nascita delle grandi città (Cuma, Capua, Napoli), questa area è stata sempre popolata per la ricchezza e la fertilità della pianura: le eruzioni, infatti, da un lato distruggevano, dall’altro innestavano un nuovo meccanismo di rinascita del territorio. Fra i più importanti manufatti espositi, che provengono non solo dalle necropoli, ma anche dai villaggi locali, figurano: pugnali di bronzo (età del Bronzo Antico/ dal 2300 a.C.), presenti raramente nei corredi funerari e legati allo status sociale del defunto; biconici per incinerazione, vasi di solito attribuiti alla cultura proto-etrusca, ma qui collegati anche alle dimensione indigena; l’imponente vaso decorato a stampo e risalente al Bronzo Medio (XIV/XIII sec. a.C.).
b) la Valle del Clanis alla fine dell’VIII secolo a.C., con i poli di Cuma (la Tomba Artiaco) e Gricignano: in questo segmento dell’allestimento, ampliando il percorso di ricerca già segnato dalla mostra sugli Etruschi, sono posti in dialogo il corredo della Tomba Artiaco 104 di Cuma ed i contemporanei ornamenti  dalla necropoli di Gricignano di Aversa (VIII/VII sec. a.C); i due siti, infatti, erano i due estremi della pianura bagnata dal fiume Clanis. Qui è possibile ammirare una selezione di corredi funerari esemplificativi delle diverse classi di età e, di conseguenza, del diverso ruolo sociale dei defunti: dalla donna al guerriero/cacciatore/sacerdote, senza trascurare i giovani, di ambo i sessi, ed i bambini, seppelliti in enchytrismòs (inumazione in vaso). Di notevole interesse è il recupero di una lancia in ferro, frutto di un paziente lavoro del laboratorio di restauro del MANN;
c) la Campania settentrionale, in particolare l’area ausone-aurunca, con gli splendori orientalizzanti di Cales (Calvi Risorta): in esposizione, alla tomba 1 si affianca la tomba 89 della bambina di Cales, con reperti di pregio come la conocchia in vetro blu ed i calzari in bronzo; in allestimento, è possibile ammirare i tesori del santuario della dea Marica alla foce del Garigliano, da cui proviene un patrimonio straordinario di ex-voto e terrecotte architettoniche. Si giunge, così, al VI-V secolo a.C. con i reperti dal santuario caleno extraurbano di Monte Grande: tra gli oggetti mai esposti al pubblico, un ex-voto in bronzo e alcune terrecotte che spiccano per qualità di fattura; tali manufatti provengono dagli scavi di Calvi Risorta e rientrano nel quadro della collaborazione strutturata con la SABAP di Caserta e Benevento. Il secondo ambiente dell’allestimento “La Piana Campana, una terra senza confini” comprende, per Capua, le terrecotte architettoniche dal santuario di fondo Patturelli ed un simulacro di Mater Matuta; focus anche su Suessula (l’attuale Acerra), rappresentata dalla collezione Spinelli, ed, ancora, su Nola. Insieme a questi reperti, che risalgono al IX-III sec. a.C., è anche esposta una selezione dei manufatti etrusco-italici della Collezione Borgia: tramite questo accostamento, è possibile creare una simmetria armonica con la cultura delle popolazioni coeve dell’Italia centrale.

 

Fotogiornalista da 35 anni, collabora con i maggiori quotidiani e periodici italiani. Ha raccontato con le immagini la caduta del muro di Berlino, Albania, Nicaragua, Palestina, Iraq, Libano, Israele, Afghanistan e Kosovo e tutti i maggiori eventi sul suolo nazionale lavorando per agenzie prestigiose come la Reuters e l’ Agence France Presse, Fondatore nel 1991 della agenzia Controluce, oggi è socio fondatore di KONTROLAB Service, una delle piu’ accreditate associazioni fotografi professionisti del panorama editoriale nazionale e internazionale, attiva in tutto il Sud Italia e presente sulla piattaforma GETTY IMAGES. Docente a contratto presso l’Accademia delle Belle Arti di Napoli., ha corsi anche presso la Scuola di Giornalismo dell’ Università Suor Orsola Benincasa e presso l’Istituto ILAS di Napoli. Attualmente oltre alle curatele di mostre fotografiche e l’organizzazione di convegni sulla fotografia è attivo nelle riprese fotografiche inerenti i backstage di importanti mostre d’arte tra le quali gli “Ospiti illustri” di Gallerie d’Italia/Palazzo Zevallos, Leonardo, Picasso, Antonello da Messina, Robert Mapplethorpe “Coreografia per una mostra” al Museo Madre di Napoli, Diario Persiano e Evidence, documentate per l’Istituto Garuzzo per le Arti Visive, rispettivamente alla Castiglia di Saluzzo e Castel Sant’Elmo a Napoli. Cura le rubriche Galleria e Pixel del quotidiano on-line Juorno.it E’ stato tra i vincitori del Nikon Photo Contest International. Ha pubblicato su tutti i maggiori quotidiani e magazines del mondo, ha all’attivo diverse pubblicazioni editoriali collettive e due libri personali, “Chetor Asti? “, dove racconta il desiderio di normalità delle popolazioni afghane in balia delle guerre e “IMMAGINI RITUALI. Penitenza e Passioni: scorci del sud Italia” che esplora le tradizioni della settimana Santa, primo volume di una ricerca sui riti tradizionali dell’Italia meridionale e insulare.

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Cultura

Ritrovato il 145/o manoscritto del Milione di Marco Polo

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Proprio nell’anno che celebra i 700 anni dalla morte di Marco Polo, è stato ritrovato un manoscritto del Devisement dou monde/Milione presente nei cataloghi, ma ignoto agli studi su Marco Polo (è assente da tutti i censimenti del Milione) che risulta essere l’ultimo dei codici oggi noti in ordine di tempo del testo del grande viaggiatore veneziano. Sono 145 raggruppati in diverse famiglie.

Il ritrovamento, che si inserisce nel più ampio lavoro sul Milione coordinato da Eugenio Burgio, Marina Buzzoni e Samuela Simion dell’Università Ca’ Foscari Venezia e Antonio Montefusco dell’Università di Nancy, riveste notevole interesse perché aggiunge nuove importanti informazioni riguardo alla trasmissione del testo e alle sue varie versioni. La storia della diffusione del Milione è in effetti una delle più intricate e appassionanti della letteratura medievale: il successo dell’opera determinò una fioritura di traduzioni, riscritture, adattamenti, riflesso dei numerosi ambienti in cui il testo fu letto.

Il manoscritto è un testimone quasi ignoto di una traduzione realizzata mentre Marco era ancora vivo, ed è da questa traduzione che derivano le versioni con cui il Milione venne conosciuto e letto. Il manoscritto è conservato nella Biblioteca Diocesana Ludovico Jacobilli di Foligno, con segnatura Jacobilli A.II.9, e trasmette la traduzione che gli studiosi chiamano VA, realizzata entro il primo quarto del Trecento nell’Italia nord-orientale.

L’importanza di questa traduzione risiede soprattutto nell’ampiezza della sua diffusione: il testo di VA venne infatti sottoposto a numerose traduzioni, sia in latino che in volgare, tanto che gran parte dei manoscritti superstiti è, direttamente o indirettamente, una sua emanazione. È quindi la versione in cui il libro di Marco Polo venne più letto e conosciuto in Europa.

Solo nei prossimi mesi si potrà aggiungere qualche informazione sulla posizione del manoscritto all’interno della tradizione manoscritta del Milione, in attesa di uno studio più ampio che sarà pubblicato su una delle riviste principali del settore. Tra le attività dell’anno dedicato a Marco Polo anche la pubblicazione della prima edizione digitale dell’opera di Marco Polo, resa disponibile agli studiosi di tutto il mondo e pubblicata da Edizioni Ca’ Foscari in open access e open source.

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John & Yoko, amore musica e politica nel docu da Oscar

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John Lennon fa fare l’aeroplanino al figlioletto Sean appena nato e poi lo porta a spasso mentre Yoko Ono gli dà la pappa nella cucina dell’appartamento nel Dakota Building con vista su Central Park: un quadretto familiare tenero che è una delle tante scoperte di ‘One to One: John & Yoko’, il documentario dello scozzese Kevin MacDonald con Sam Rice-Edwards che è una vera e propria immersione negli anni newyorkesi di Lennon ormai separato dai Beatles. Il film è in anteprima mondiale fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia e poi andrà al festival di Telluride.

Il regista ha potuto accedere all’archivio Lennon e alla Lennon’s Estate e ricostruire l’esperienza della coppia che tra musica, concerti benefici, manifestazioni partecipava alla vita culturale della città e soprattutto a quella politica. Erano gli anni della guerra in Vietnam, dei cortei dei giovani che chiedevano stop the war e peace now – scene e frasi drammaticamente attuali – del presidente Nixon da boicottare ma che invece veniva rieletto, del governatore razzista dell’Alabama George Wallace oggetto di un attentato che infiammò l’America.

Cosa non si è detto, visto, scritto dei FabFour, del loro addio – The Beatles: Get Back di Peter Jackson nel 2021 è solo l’ultimo degli approfondimenti – di Yoko Ono rovina Beatles eccetera eccetera? Eppure One to One: John & Yoko getta nuova luce. Innanzitutto il periodo non troppo indagato: siamo nel 1971-1972, la coppia innamoratissima era arrivata dall’Inghilterra, aveva preso casa al 496 di Broome Street a Soho e al 105 di Bank Street al Village, trascorreva giornate a letto, il famoso periodo peace and love, strimpellando, cantando, intervenendo nei programmi tv, ma cominciava di fatto una nuova vita. Fu allora che John e Yoko si impegnarono pesantemente in cause politiche e realizzarono Some Time in New York City, passato alla storia come il peggior album di Lennon e soprattutto il concerto di beneficenza per la famigerata Willowbrook State School per bambini con disabilità intellettive, che un’inchiesta tv aveva svelato come un istituto in pratica di detenzione pediatrica.

Lennon e Ono (la cui figlia Kyoko avuta dall’ex marito Anthony Cox, le era stata sottratta con grande dolore) si buttano con generosità nella realizzazione del concerto così come in altre cause, spesso insieme all’attivista sociale Jerry Rubin e al padre beatnik Allen Ginsburg, tentando di coinvolgere anche un recalcitrante Bob Dylan e quegli slanci sono forse una delle belle scoperte del documentario. One to One ebbe luogo al Madison Square Garden il 30 agosto 1972, l’unico concerto completo che Lennon tenne dopo aver lasciato i Beatles e prima che venne ucciso da un fan squilibrato sotto casa l’8 dicembre 1980. Il film è il racconto di anni irrequieti per l’America, per Lennon e Yoko (femminista della prima ora partecipa alla prima storica riunione, 1971), tra pubblico e privato.

E poi però c’è la musica Imagine, Looking over from my hotel window, Hound Dog, Come together, 39, Mother e tante altre. “L’idea del film – ha detto il regista – è stare con loro, come seduti nella loro casa, c’è intimità, c’è la storia del dolore di Yoko che cercava la figlia e c’è anche la loro vulnerabilità di famosi, ricchi, generosi e idealisti che volevano fare la rivoluzione ma poi disillusi pensarono alle piccole cose da cambiare, come far star meglio i bambini della Willowbrook School”. E poi, se pure è un tema divisivo dagli anni ’60, c’è Yoko Ono “questo film ha dato a Yoko la possibilità di essere vista, uguale a John”.

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Il mare delle Egadi restituisce un rostro in bronzo

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Fu l’arma letale nella Battaglia delle Egadi, combattuta a nord-ovest dell’isola di Levanzo nel 241 avanti Cristo, che segnò la fine della prima guerra punica con la vittoria dei Romani sui Cartaginesi. Era il rostro a tre fendenti che si allungava a prua dell’imbarcazione. La trireme, lanciata a velocità sulle navi nemiche determinava, con il colpo del rostro, squarci micidiali nelle navi nemiche causandone il loro affondamento. L’ultimo importante reperto archeologico di questo tipo è stato appena restituito dal mare delle Egadi.

La campagna di ricerche di agosto ha, infatti, consentito di recuperare un rostro in bronzo che si trovava su un fondale a circa 80 metri di profondità. Il reperto è stato recuperato dai subacquei della “Society for documentation of submerged sites” (Sdss) con l’ausilio della nave oceanografica da ricerca “Hercules” che negli anni ha permesso, grazie alle sofisticate strumentazioni presenti a bordo, l’individuazione e il recupero di numerosi reperti riguardanti l’importante evento storico del III secolo a.C. Il rostro è stato trasferito nel laboratorio di primo intervento nell’ex Stabilimento Florio di Favignana ed è già al vaglio degli archeologi della Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana.

Le sue caratteristiche sono simili a quelle degli altri già recuperati nelle precedenti campagne di ricerca: nella parte anteriore una decorazione a rilievo che raffigura un elmo del tipo Montefortino con tre piume nella parte superiore, mentre le numerose concrezioni marine non consentono ancora di verificare la presenza di iscrizioni. Le attività di ricerca nel tratto di mare tra Levanzo e Favignana sono condotte da circa 20 anni da un team formato dalla Soprintendenza del Mare, dalla statunitense Rpm Nautical Foundation e dalla Sdss.

“I fondali delle Egadi sono sempre una fonte preziosa di informazioni per aggiungere ulteriori conoscenze sulla battaglia navale tra la flotta romana e quella cartaginese. L’intuizione di Sebastiano Tusa continua ancora oggi a ricevere conferme sempre più puntuali, avvalorando gli studi dell’archeologo che avevano consentito l’individuazione del teatro della battaglia” ha commentato l’assessore regionale ai Beni culturali, Francesco Paolo Scarpinato. “Con quest’ultimo rostro – sottolinea l’assessore -, salgono a 27 quelli ritrovati a partire dai primi anni Duemila. Negli ultimi 20 anni sono stati individuati anche 30 elmi del tipo Montefortino, appartenuti ai soldati romani, due spade, alcune monete e un considerevole numero di anfore”. La battaglia delle Egadi, descritta da Polibio e da molti altri storici antichi, concluse la lunga prima guerra punica grazie ad una svolta impressa dall’audace ammiraglio Lutazio Catulo che sbloccò una situazione di stallo anche grazie a un’arma micidiale come quella rappresentata dal rostro.

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