Chi cacciò di Muhammar el Gheddafi grazie ai bombardamenti francesi ed americani sul lungomare di Tripoli lasciò uno striscione enorme. C’era scritto in inglese “Finally, we are free” ovvero finalmente siamo liberi. Certo il regime di Gheddafi non era il massimo della democrazia e della libertà come l’intendiamo noi occidentali, ma dire che i libici sono liberi è un azzardo oggi. La capitale della Libia, Tripoli, tutto sembra tranne che una città dove la gente vive. Case sventrate da colpi di obice, palazzine nuove con cantieri bloccati danni, strade deserte, qualche palazzo risistemato con toppe di muri distrutti da qualche cannonata. Chi può gira in auto, preferibilmente blindata. Il panorama di Tripoli è davvero spettrale. Dire che la libertà assaggiata con l’uccisione di Gheddafi e dei figli fu solo assaggiata è qualcosa che assomiglia alla verità.
Oggi Tripoli è solo una stazione di transito e di partenza per migranti e profughi che arrivano perlopiù dall’africa subsahariana. Questo esercito di disperati entrati in Libia, stremati dopo aver attraversato il deserto, dopo aver visto morire di fame e di stenti tanti loro compagni di viaggio, diventano merce umana in mano alle quattro milizie armate che si dividono il controllo della Libia. Sono queste milizie, questi uomini e donne armati fino ai denti, i veri guardiani dei poteri. Il governo di accordo nazionale guidato da Fayez Mustafa al Sarraj, l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale, è debole. Diciamo che dipende dagli umori dei miliziani. Dal 2017 le istituzioni libiche non controllano ma sono controllare dagli eserciti di miliziani inquadrato e gestiti da signori della guerra locali. Uno dei vice del presidente del Consiglio nazionale al Sarraj, tale Fathi al Majbari, di recente, ha fatto sapere di non essere soddisfatto della ripartizione dei proventi del greggio. Il generale Khalifa Haftar aveva sottratto alla National Oil Corporation il controllo di pozzi petroliferi per affidarlo a una struttura parallela dell’Est della Libia. Al Majbari aveva approvato la scelta. Il 26 giugno, stando a una fonte a lui vicina, gli è stata assaltata la casa a colpi di kalashmikov, tre guardie armate uccise. Stava per essere rapito. È riuscito a scappare assieme alla famiglia. Haftar, il generale che gode dell’appoggio e degli aiuti militari di Egitto e Russia, domina la Cirenaica con metodi brutali e vuole estendere la sua influenza sull’altra regione libica, la Tripolitania. E il suo blocco di alcuni pozzi, terminato in seguito a pressioni di Stati Uniti, Francia e Italia, aveva ridotto di oltre la metà la produzione libica di greggio che era in febbraio di un milione e 280 mila barili al giorno.
A Tripoli il vero potere è quello che si riscontra nella struttura verticale delle milizie, simile più a quella della mafia. Ogni fazione gestisce un affare importante e nei limiti del possibile non interferisce con gli affari delle altre fazioni. Quando gli interessi si sovrappongono, quando ci sono collisioni, corti circuiti vengono regolati con le armi. Sparatorie, uccisioni. Poi le cose tornano al loro posto, fino alla prossima sparatoria.
La «Rada» o «Sdf» – Special deterrence force, Forza speciale di deterrenza – è guidata da Abdeurrauf Kara. È una forza paramilitare che cacciò gli uomini di Haftar nel 2014. La «Trb» – la Tripoli revolutionaries brigade di Haitham al Tajuri – ha in mano la Polizia diplomatica che si occupa delle ambasciate, tra le quali quella italiana, la sola dell’Unione Europea in funzione. La Nawasi brigade – salafita – è collegata a Kara e controlla tra l’altro la base della Libyan coast guard, la Marina. La Abdul Salim unit dell’Apparato di sicurezza centrale – detta anche «al Kikli», dal comandante Abdelghani al Kikli – è forte nell’area di Abu Salim. Nel maggio del 2018 la Sdf – Special deterrence force, Forza speciale di deterrenza – fu sciolta dal governo riconosciuto dall’Onu e ricostituita dal Ministero degli Interni come Deterrence Anti-Organized Crime and Terrorism Apparatus. In pratica la nuova milizia avrebbe avuto ( o meglio ha) come compito principale quello di “combattere la criminalità organizzata e il terrorismo e monitorare i social media”. Secondo Human Rights Watch (HRW) “molti gruppi armati, incluso l’SDF, operano solo nominalmente sotto il Ministero dell’Interno della GNA”. “Le autorità – scrive HRW – sembrano incapaci di controllare questi gruppi o di imporre ai loro comandanti di tenere conto degli abusi”. Un rapporto delle Nazioni Unite sulle detenzioni in Libia, pubblicato ad aprile 2018, ha descritto “gravi violazioni dei diritti umani come prolungata detenzione arbitraria e in incommunicado, tortura, isolamento prolungato, condizioni di detenzione disumane, decessi in custodia e esecuzioni sommarie”.
Tra le principali fonti di introiti dei gruppi in armi rientrano la speculazione sul dinaro, la moneta locale, e il pizzo. Oltre che sequestri di persona a scopo di estorsione. Le speculazioni avvengono alle luce del sole: emissari delle milizie ottengono lettere di credito per importare beni, ricevono euro o dollari al cambio ufficiale e invece di spenderli li vendono al mercato nero. In porto arrivano container vuoti. Servono a far finta che si sia importato qualcosa. Il pizzo si avvale della crisi di liquidità. Davanti ad alcune banche o simil-banche si creano file. Un miliziano si fa intestare un assegno da una persona in attesa. Poi entra, ritira una somma di danaro e a chi ha emesso l’assegno ne dà una parte soltanto. Protestare costerebbe molto caro. In termini economici e di sicurezza. Ai giornalisti stranieri che arrivano in Libia per raccontare questo Paese sull’orlo di una guerra civile, in preda al caos, in mano a bande paramilitari, senza una struttura istituzionale, una burocrazia e senza giustizia occorre un’autorizzazione anche solo per camminare per strada. Intervistare passanti poi significa esporsi anche ad un arresto arbitrario. Si può superare ogni problema pagando qualche miliziano armato che ti accompagna.
Da quando nel 2017 la Cnn ha mostrato schiavi venduti all’asta, i potentati giudicano gli inviati presenze ostili. È in questa atmosfera che le esortazioni provenienti dall’estero a istituire in Libia centri per filtrare quanti chiedono asilo in Europa sono percepite come mire inquietanti. Tra i libici, oltre sei milioni di abitanti, c’è chi teme che i migranti arrivino dal Sud spinti da un piano volto ad alterare la demografia del Paese. Passi dei quali da noi non si calcolano gli effetti aumentano le difficoltà per le organizzazioni internazionali che l’ Italia ha contribuito dieci mesi fa a far agire a Tripoli.
Più che un aumento dei fondi, alla Libia serve stabilizzazione. Sarraj non controlla quasi niente fuori dalla capitale. E oggi i finanziamenti non rafforzano necessariamente autorità centrali, bensì fazioni. Il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, a Tripoli, ha detto: «È necessario raddoppiare gli sforzi per ripristinare un’efficace unità nazionale. Per garantire la stabilità necessaria allo sviluppo». È così. Se l’anarco-oligarchia fosse sostituita da vere autorità centrali, l’ economia crescerebbe. Con la ricostruzione, ai migranti dal Sud non interesserebbe solo l’ Europa. La prima da costruire, però, è una pace.
Il magnate dei media pro-democrazia Jimmy Lai è salito sul banco dei testimoni nell’aula del tribunale di West Kowloon, a Hong Kong. Per la prima volta, dopo quattro anni trascorsi nel carcere di massima sicurezza, il tycoon è ritornato a parlare in pubblico nel processo dove è imputato per “cospirazione, collusione con potenze straniere e pubblicazione di materiale sedizioso” in base alla legge sulla sicurezza nazionale di giugno del 2020 imposta da Pechino all’ex colonia britannica. Lai, che rischia la pena massima dell’ergastolo, ha detto di essere entrato nel mondo dell’informazione per “partecipare alla liberazione della libertà. Più sei informato, più sei libero”.
Rispondendo alle domande del suo avvocato, ha detto che il suo quotidiano Apple Daily, costretto alla chiusura nel 2021, ha difeso i “valori fondamentali” del popolo di Hong Kong, tra cui “lo stato di diritto, la libertà di parola e il perseguimento della democrazia”. Alla domanda se la testata si sia mai opposta alla violenza durante le proteste antigovernative di massa di Hong Kong nel 2019, Lai non ha avuto esitazioni: “Sono sempre stato contrario alla violenza in qualsiasi forma”. Ha negato il sostegno all’indipendenza di Hong Kong e di Taiwan, la cui difesa “era una cospirazione per farci cadere in una trappola. L’idea era troppo folle, quindi non l’abbiamo mai menzionata sul nostro giornale”. Lai, fuggito a Hong Kong dalla Cina comunista da bambino, si è dichiarato non colpevole rispetto agli addebiti. I pubblici ministeri l’hanno accusato di aver sollecitato “Paesi stranieri ad intraprendere azioni punitive” contro Pechino, citando i suoi incontri con funzionari tra cui l’ex vicepresidente americano Mike Pence e l’ex segretario di Stato Mike Pompeo.
Ha replicato di aver solo “esposto la situazione: non ho chiesto agli Stati Uniti di fare qualcosa, ho voluto dire qualcosa su quello che succedeva da noi”, in base alla comune condivisione di valori. La pubblica accusa allora ha citato l’elenco di 161 articoli ed editoriali del quotidiano, “prove della sua tendenza sediziosa”. Il tycoon, in possesso di un passaporto britannico, poteva lasciare la città nel 2020 quando erano chiari gli scenari punitivi del governo nei suoi confronti e del movimento pro-democrazia: decise invece di restare per combattere senza speranze a difesa della città che lo aveva accolto. Il processo a suo carico è visto come un barometro del crollo delle libertà nel territorio cinese ad amministrazione speciale.
Martedì la scure dell’Alta Corte ha colpito 45 politici, accademici, giornalisti e attivisti pro-democrazia dell’ex colonia con pene detentive fino a 10 anni nel più grande processo sulla sicurezza nazionale tenuto finora a Hong Kong, colpevoli di “cospirazione al fine della sovversione” a causa “delle primarie non ufficiali” del 2020, ultima grande prova di resistenza alla stretta illiberale della Cina. Da Pechino, il ministero degli Esteri ha accusato Lai di essere “un agente e un lacchè delle forze anti-cinesi”, nonché “il principale cospiratore e partecipante della rivolta anti-cinese a Hong Kong”, ha tuonato il portavoce Lin Jian. Insomma, una condanna anticipata contro il più grande bersaglio della stretta sul dissenso della Repubblica popolare nell’ex colonia britannica.
Nel linguaggio infuocato del Medio Oriente, mentre il Libano sembra a un passo dalla tregua con Israele, il leader di Hezbollah Naim Qassem ha provato a rievocare lo stile del defunto predecessore Hasan Nasrallah minacciando di colpire il centro di Tel Aviv in risposta ai raid dell’Iaf su Beirut. L’ira del capo dell’organizzazione filoiraniana si è sommata a quella di Hamas che ha accusato Washington di essere “direttamente responsabile” di una “guerra genocida” a Gaza, dopo che gli Usa hanno bloccato con il veto la bozza di risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu che chiedeva “un cessate il fuoco immediato, incondizionato e permanente” nella Striscia e “il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi”.
Dopo due giorni di trattative serrate nella capitale libanese, l’inviato dell’amministrazione Biden Amos Hochstein si sposta in Israele per vedere prima il ministro Ron Dermer, il più stretto collaboratore di Benyamin Netanyahu, e poi lo stesso premier. Fonti locali di alto livello hanno riferito a Channel 12 il cauto ottimismo israeliano spiegando che, se ci sarà un accordo, “il cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah sarà possibile entro una settimana”. Nonostante i due nodi da sciogliere siano non di poco conto: la libertà d’azione dell’Idf in Libano in caso di violazione della tregua e la composizione del comitato internazionale di vigilanza in Libano. “Hezbollah ha ricevuto la proposta americana di cessate il fuoco con Israele e ha presentato i commenti a riguardo”, ha dichiarato Naim Qassem nel video registrato e trasmesso nel pomeriggio. “Tutto dipende ora dalla serietà di Netanyahu… la questione è legata alla risposta israeliana”, ha aggiunto, ribadendo al tempo stesso che “la resistenza può continuare a lungo con questo ritmo e Israele non può sconfiggerci e non può imporci le sue condizioni”.
Il leader della milizia libanese ha aggiunto che “anche il presidente del Parlamento Nabih Berri ha espresso osservazioni che sono in accordo con quelle di Hezbollah”. Per il partito di Dio nessun documento sarà siglato se vengono a mancare due principi: “un cessate il fuoco completo e totale e il mantenimento della sovranità libanese”. Intendendo dire che l’Idf non dovrà avere mano libera in Libano, anche se l’accordo venisse violato dai miliziani sciiti. Poi l’avvertimento di Qassem allo Stato ebraico: “Sul terreno continueremo a combattere indipendentemente dal fatto che i negoziati abbiano successo oppure no”.
Tuttavia continua ad essere positiva la valutazione dei colloqui da parte dell’inviato americano che, parlando da Beirut dopo il secondo incontro con Berri (alleato di Hezbollah e negoziatore), ha ribadito di aver visto una “vera opportunità” per porre fine al conflitto. Dopo che il governo libanese e Hezbollah hanno ampiamente accettato la proposta di cessate il fuoco degli Stati Uniti, sebbene con alcune questioni in sospeso. “L’incontro ha fatto ulteriori progressi – ha detto Hochstein -, quindi andrò in Israele per cercare di concludere, se possibile”. E ha aggiunto che collaborerà con la nuova amministrazione del presidente eletto Donald Trump per raggiungere una tregua, sottolineando di aver tenuto informato il team di transizione. Intanto la Siria accusa Israele di un nuovo raid israeliano: i media di Damasco hanno fatto sapere che l’attacco ha preso di mira alcuni edifici e la zona industriale vicino all’area delle rovine di epoca romana di Palmira.
Secondo l’Osservatorio per i diritti umani in Siria, l’Idf ha portato a termine tre attacchi distinti colpendo postazioni e depositi di armi di forze afghane e irachene filo-iraniane dispiegate da anni nella zona. Secondo l’Ong i morti sono 11, mentre il governo di Bashar al Assad parla di 36 vittime. Sul fronte iracheno, fonti della tv saudita al Hadath hanno dichiarato che “gli Stati Uniti hanno informato il Paese arabo di aver esaurito tutti i mezzi per fare pressione su Israele affinché non attacchi Baghdad” in risposta ai lanci di droni e razzi contro lo Stato ebraico da parte delle milizie filoiraniane. Funzionari della sicurezza hanno affermato che “l’Iraq ha adottato tutte le misure per affrontare eventuali raid israeliani”.
E’ una spirale di violenza senza fine quella che condanna Haiti a vivere una nelle peggiori crisi politiche, sociali e umanitarie della sua breve e tribolata storia. L’instabilità amministrativa, il dominio delle organizzazioni su gran parte del territorio e la brutalità delle forze dell’ordine descrivono uno scenario di caos da cui è difficile immaginare una via d’uscita. In questo contesto l’Ong Medici senza frontiere (Msf) ha annunciato la sospensione delle sue attività nella capitale Port-au-Prince a causa di violenze e intimidazioni sofferte dai propri dipendenti da parte della polizia.
“Quando anche le forze dell’ordine diventano una minaccia diretta, non abbiamo alternative alla sospensione dell’assistenza”, ha affermato il coordinatore di Msf sull’isola Christophe Garnier, evidenziando che il ritiro di “uno dei pochi fornitori di assistenza medica rimasti sul territorio” è “una tragedia” per la popolazione civile, stretta tra il fuoco incrociato. Oltre 20mila persone hanno lasciato le proprie case negli ultimi giorni per sfuggire alla furia delle gang e alle rappresaglie di polizia e gruppi di civili armati. Dall’inizio dell’anno gli sfollati sono più di 700 mila.
Per l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) senza un’assistenza internazionale immediata, le sofferenze sono desinate peggiorare, facendo salire il bilancio delle vittime già oltre quota 4.000 morti nel 2024. La situazione è recentemente peggiorata a seguito dell’annuncio dal cartello delle bande locali – Vivre Ensemble – di voler “prendere in mano i destini del Paese” di fronte al fallimento del Consiglio presidenziale di transizione (Cpt) evidente dopo il licenziamento, due settimane fa, del primo ministro Garry Conille in mezzo agli scandali per corruzione. Per l’ex poliziotto ora leader dei gruppi armati Jimmy ‘Barbecue’ Cherizier il Ctp – struttura incaricata di risolvere l’impasse politica, ripristinare l’ordine e gestire la transizione pacifica fino allo svolgimento delle elezioni a febbraio del 2026 – non avrebbe credibilità. La precedente rivolta guidata da ‘Barbecue’ a marzo aveva portato alle dimissioni dell’allora primo ministro Ariel Henry. Dopo l’uscita di scena di Henry e la nomina del Cpt l’attività delle bande si era ridotta, fino alla nuova escalation ad Haiti dove non c’è un parlamento funzionante né un presidente eletto dall’assassinio di Jovenel Moise nel 2021. Le elezioni si sono svolte l’ultima volta nel 2016.