Donald Trump ha mostrato più e più volte la sua pericolosità: per il proprio Paese, per il mondo e quindi per tutti noi. Batterlo alle prossime elezioni non è più una questione di simpatia o antipatia. E neppure, a ben guardare, una questione ideologica. Significa riportare la politica nell’alveo del buon senso.
Guardatelo all’opera nel contesto della crisi pandemica, e quindi anche solo nelle ultime settimane. Dopo essere stato messo per tempo di fronte alla sua colossale incompetenza dalle massime autorità dello Stato e della città di New York, epicentri dell’epidemia negli Stati Uniti, il Presidente scatena qualche giorno fa una una guerriglia istituzionale con gran parte dei Governatori americani in disaccordo con lui sulle modalità di gestione della crisi. Manda sulle strade d’America la Guardia Nazionale, centinaia di migliaia di persone, anche armate, che possono “dare una mano” ma non sono certo in grado di combattere il virus, mentre dà segni di insofferenza nei confronti di Antony Fauci, scienziato di fama mondiale, da lui stesso nominato suo consulente per la sanità pubblica. Nel frattempo, crea una “commissione” che si interessa del coronavirus, con obiettivi che appaiono tuttavia poco trasparenti, presieduta da un manager di modesto livello che però ha la fortuna di chiamarsi Jared Kushner, e di essere suo genero. Oggi mette in atto la minaccia che già la scorsa settimana aveva proferito contro l’OMS, tagliando i fondi a questa essenziale agenzia dell’ONU nel momento di massimo impegno globale contro il coronavirus. Motivo? Disaccordo con le sue misure di contenimento del contagio, giudicate poco efficaci, aggravato -a suo dire- dalla subordinazione alla Cina, nientemeno!
Battere quest’uomo alle prossime elezioni presidenziali è una priorità per l’America, prigioniera di una autentica “politica della demenza”, ma è altresì un imperativo globale, per la tenuta del sistema-mondo con le sue economie interconnesse, con i suoi equilibri geopolitici. Il peso che grava ormai sulle spalle di Joseph Biden diventa a questo punto enorme. Bene ha fatto Barack Obama a dichiarare il proprio endorsement. Ma non basta, temo.
Joe Biden. Il candidato democratico alla Casa Bianca
La debolezza dello sfidante democratico, come hanno finora dimostrato le primarie, passa attraverso tre strettoie che possono rivelarsi fatali, secondo una circostanziata analisi pubblicata sul New York Times di ieri:
il disinteresse dei giovani, i 18-29enni ai quali non sa parlare;
la mancata mobilitazione del voto “latino”;
l’incapacità di “suscitare entusiasmo”.
Non sorridete, non ci provate neanche: questa è stata la palla che ha trascinato a fondo Hillary Clinton nelle passate elezioni. Ed è impressionante come, di là da ogni altra considerazione razionale o politica, è l’entusiasmo l’arma che il Presidente in carica continua a saper maneggiare, suscitandone a iosa con i suoi twitter sempre ammiccanti al conservatorismo irriflesso dell’America profonda.
Per far fronte a queste carenze, la scelta del/della vice-presidente sarà cruciale. Qualche buon algoritmo sarà già all’opera, tra i big data delle primarie, per capire come si possono mettere in funzione le energie che Biden non è stato in grado di mobilitare finora. Ma credo valga la pena di metterci qualcos’altro. Penso a una narrazione appassionata della crisi, dalla quale traspaia la voglia in qualche modo “kennediana” di smantellare l’impianto sostanzialmente inegualitario e profondamente razziale della società americana. Aggiungerei a questa narrazione un impegno che finora non è parso così evidente nell’elaborazione e nella comunicazione di uno specifico programma di contrasto alla crisi, un programma “alternativo” sul piano medico non meno che epidemiologico, con tutti i riflessi che si possono immaginare sulla struttura sociale ed economica del Paese. Traendo qualche spunto, mi auguro, da quello che John Agnew, un brillante geografo dell’UCLA, in California, ha chiamato “il paradosso spaziale del populismo trumpiano”, avvertendo che la sanità pubblica federale è chiamata –come mission preminente- a saturare le vulnerabilità locali, delle quali altrimenti approfitta “opportunisticamente” il coronavirus per alimentare le proliferazioni dei focolai infettivi.
Il nome di Stacey Yvonne Abrams, giovane deputata africana-americana della Georgia, circola con insistenza. Non potrei che dirmi felice se la scelta cadesse su di lei. Ma perché non cominciare a pensare come vice-presidente anche ad Andrew Cuomo? Il governatore dello Stato di New York è una persona capace e determinata, un leader in grado di tener testa all’arroganza trumpiana, insomma una figura montante sulla scena della crisi, in cui Biden appare ancora come una tenue presenza….
Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.
La trumpiana di ferro Marjorie Taylor Greene collaborerà con Elon Musk e Vivek Ramaswamy come presidente di una commissione della Camera incaricata di lavorare con il Dipartimento dell’efficienza. “Sono contenta di presiedere questa nuova commissione che lavorerà mano nella mano con il presidente Trump, Musk, Ramaswamy e l’intera squadra del Doge”, acronimo del Department of Government Efficiency, ha detto Greene, spiegando che la commissione si occuperà dei licenziamenti dei “burocrati” del governo e sarà trasparente con le sue audizioni. “Nessun tema sarà fuori dalla discussione”, ha messo in evidenza Greene.
Donald Trump nomina la fedelissima Pam Bondi a ministra della Giustizia. L’ex procuratrice della Florida ha collaborato con il presidente eletto durante il suo primo impeachment. “Come prima procuratrice della Florida si è battuta per fermare il traffico di droga e ridurre il numero delle vittime causate dalle overdosi di fentanyl. Ha fatto un lavoro incredibile”, afferma Trump sul suo social Truth annunciando la nomina, avvenuta dopo il ritito di Matt Gaetz travolto da scandali a sfondo sessuale. “Per troppo tempo il Dipartimento di Giustizia è stato usato contro di me e altri repubblicani. Ma non più. Pam lo riporterà al suo principio di combattere il crimine e rendere l’America sicura.
E’ intelligente e tosta, è una combattente per l’America First e farà un lavoro fantastico”, ha aggiunto il presidente-eletto. Bondi è stata procuratrice della Florida fra il 2011 e il 2019, quando era governatore Rick Scott. Al momento presiede il Center for Litigation all’America First Policy Institute, un think tank di destra che sta lavorando con il transition team di Trump sull’agenda amministrativa. Come procuratrice della Florida si è attirata l’attenzione nazionale per i suoi tentativi di capovolgere l’Obamacare, ma anche per la decisione di condurre un programma su Fox mentre era ancora in carica e quella di chiedere al governatore Scott di posticipare un’esecuzione per un conflitto con un evento di raccolta fondi.
La nomina di Bondi arriva a sei ore di distanza dal ritiro di Gaetz dalla corsa a ministro della Giustizia dopo le nuove rivelazioni sullo scandalo sessuale che lo ha travolto. Prima dell’annuncio, l’ex deputato della Florida era stato contattato da Trump che gli aveva riferito che la sua candidatura non aveva i voti necessari per essere confermata in Seanto. Almeno quattro senatori repubblicani, infatti, si era espressi contro e si erano mostrati irremovibili a cambiare posizione. Il nome di Bondi, riporta Cnn, era già nell’iniziale lista dei papabili ministro alla giustizia stilata prima di scegliere Gaetz. Quando l’ex deputato ha annunciato il suo passo indietro, il nome di Bondi è iniziato a circolare con insistenza fino all’annuncio.
Con il mandato d’arresto spiccato contro il premier israeliano Benyamin Netanyahu, insieme all’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, si allunga la lista dei capi di Stato e di governo perseguiti dalla Corte penale internazionale con le accuse di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Da Muammar Gheddafi a Omar al Bashir, e più recentemente Vladimir Putin. Ultimo in ordine di tempo era stato appunto il presidente russo, accusato nel marzo del 2023 di “deportazione illegale” di bambini dalle zone occupate dell’Ucraina alla Russia, insieme a Maria Alekseyevna Lvova-Belova, commissaria per i diritti dei bambini del Cremlino.
Sempre a causa dell’invasione dell’Ucraina nel mirino della Corte sono finiti in otto alti gradi russi, tra cui l’ex ministro della Difesa Sergei Shoigu e l’attuale capo di stato maggiore Valery Gerasimov: considerati entrambi possibili responsabili dei ripetuti attacchi alle infrastrutture energetiche ucraine. Prima di Putin, nel 2011 l’Aja accusò di crimini contro l’umanità Muammar Gheddafi, ma il caso decadde con la morte del rais libico nel novembre dello stesso anno.
Un simile provvedimento fu emesso per il figlio Seif al Islam e per il capo dei servizi segreti Abdellah Senussi. Tra gli altri leader di spicco perseguiti, l’ex presidente sudanese Omar al Bashir: nel 2008 il procuratore capo della Corte Luis Moreno Ocampo lo accusò di essere responsabile di genocidio e crimini contro l’umanità e della guerra in Darfur cominciata nel 2003. Anche Laurent Gbagbo, ex presidente della Costa d’Avorio, è finito all’Aja, ma dopo un processo per crimini contro l’umanità è stato assolto nel 2021 in appello.
Nel 2016 la Corte penale internazionale ha condannato l’ex vicepresidente del Congo, Jean-Pierre Bemba, per assassinio, stupro e saccheggio in quanto comandante delle truppe che commisero atrocità continue e generalizzate nella Repubblica Centrafricana nel 2002 e 2003. Il signore della guerra ugandese Joseph Kony, che dovrebbe rispondere di ben 36 capi d’imputazione tra cui omicidio, stupro, utilizzo di bambini soldato, schiavitù sessuale e matrimoni forzati, è la figura ricercata dalla Cpi da più tempo: il suo mandato d’arresto venne spiccato nel 2005. Tra gli altri dossier aperti e su cui indaga l’Aja c’è l’inchiesta sui crimini contro la minoranza musulmana dei Rohingya in Birmania. Un’altra indagine è quella su presunti crimini contro l’umanità commessi dal governo del presidente venezuelano Nicolas Maduro. E non è solo l’Aja ad aver processato capi di Stato e di governo: nel 2001, l’ex presidente Slobodan Milosevic fu accusato di crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. Arrestato, morì d’infarto in cella all’Aja nel 2006, prima che il processo potesse concludersi.